De Bellis & Palermo, ottanta… voglia di te
Ottanta anni oggi ed è ancora una roccia. Tonino De Bellis è uno dei simboli più trasparenti e più amati della storia ultracentenaria del Palermo. Tarantino di nascita ma palermitano d’adozione, ha legato a questa città e alla squadra rosanero la sua carriera di calciatore e di allenatore. E qui, con i familiari e con gli amici, festeggia un giorno davvero speciale e ha deciso di celebrarlo con una grande festa che vedrà presenti i compagni di una vita che avranno l’occasione per dimostrargli tutta la stima, l’affetto e la riconoscenza che merita.
FOTO – DE BELLIS, OTTANT’ANNI A TINTE ROSANERO
– Partiamo dall’inizio, com’è nata la passione per il calcio?
“Mio padre non voleva che giocassi a calcio. Lui era un tranquillo impiegato all’Arsenale di Taranto, tornava a casa nel tardo pomeriggio per cui io, con la complicità di mia madre, andavo a giocare con i miei amici prima del suo ritorno. Ricordo l’ansia, durante la partita, quando cominciava a fare buio, tornavo a casa di corsa per pulirmi le scarpe e lavarmi, per non fare vedere a mio padre che avevo giocato. Purtroppo, lui non mi vide mai giocare come professionista perché se ne andò a quarantanove anni quando io avevo solo dieci anni”.
– Ci racconti il primo contratto, con il Taranto in serie B…
“Da adolescente frequentavo la scuola Don Bosco dei Salesiani e fu una fortuna perchè aveva strutture adeguate per lo svolgimento di attività sportive. Un osservatore del Taranto, che militava in serie B, mi scoprì e mi diede la possibilità di iniziare la carriera a soli 17 anni. Mi feci notare nel ruolo di terzino, a dispetto dell’inesperienza, per la grinta e la determinazione che mettevo in campo, al punto che finii per giocare molto e collezionare nei due anni di permanenza nel Taranto ben 43 partite”.
– Per questo suo modo di giocare rude ed efficace lei attirò le attenzioni di molte squadre. Come avvenne il suo trasferimento a Palermo ?
“Mi scoprì Totò Vilardo, segretario del Palermo, dopo avere letto i giudizi dei giornali sportivi. Era il 1957, avevo vent’anni e approdai nella squadra e nella città di Palermo che avrebbe segnato il mio destino umano e professionale: mi pagarono 25 milioni di lire che a quei tempi costituivano una cifra altissima. Mi trovai benissimo. Molti non sanno che a quei tempi i calciatori scapoli avevano la possibilità di dormire all’interno dello stadio, risparmiando così i soldi dell’affitto dell’appartamento. La mattina suonava una campanella per svegliarci e prepararci all’allenamento. Fu un periodo bellissimo, i tifosi cominciarono a innamorarsi del mio modo di giocare e io mi innamorai di una ragazza palermitana, Giusi, che sarebbe poi diventata mia moglie”.
– Una favola, insomma. Eppure dopo quattro anni si trasferì a Venezia. Perchè? Contrasti con la società?
“Nessun contrasto. Il mio trasferimento fu determinato da ragioni pratiche, legate al servizio militare. I calciatori prestavano servizio presso la Compagnia di atleti a Bologna, per allenarsi con la squadra di appartenenza dovevano chiedere regolare permesso. Per questo decisi di giocare a Venezia, città più vicina a Bologna. Fra l’altro il destino mi fece incontrare a Bologna un capitano palermitano che mi apprezzava moltissimo e che per questo mi concedeva molti permessi per allenarmi con la squadra. Rimasi a Venezia dal 1961 al 1963, abitavo al Lido, giocavo con il mio solito impegno ma non riuscii a innamorarmi della città che secondo me è più bella da visitare che da viverci. Fra l’altro nonostante la distanza pensavo sempre a Giusi e ogni domenica sera prendevo l’aereo per venire a Palermo e ripartire il martedì mattina”.
– Allora è stato per amore che lei tornò a giocare nel Palermo nel 1964 fino alla fine della sua carriera?
“Certamente Giusi è stata importante, volevo sposarla e feci di tutto per tornare a Palermo. Ma se non avessi amato questa città, peraltro ricambiato dai tifosi, avrei potuto convincere mia moglie a seguirmi in un altro luogo. Nel Palermo ho giocato per 11 stagioni (258 partite, solo Biffi e Benedetti ne hanno fatte di più, ndr), un periodo ricco di soddisfazioni. E ancora oggi i tifosi mi fermano per strada e mi manifestano il loro affetto”.
– E anche un gol…
“Solo uno, in coppa Italia contro il Catanzaro. Ma fu un gol “storico”, perdevamo 3 a 0 e vincemmo 4 a 3 grazie alla mia rete”.
– Come si spiega tutto questo affetto da parte dei tifosi palermitani?
“La gente di Palermo vuole vedere impegno, lotta e sacrificio, vuole vedere la maglia “sudata” ed è per questo motivo che penso di essere entrato nel cuore dei palermitani. In campo ho sempre fatto il mio dovere e ho sempre giocato con energia e aggressività anche nei momenti di difficoltà. Non mi sono dato mai per vinto e per questo penso che l’appellativo più giusto per me sia quello di “guerriero”.
– Nella “leggenda” c’è anche un episodio emblematico: lei svenne in campo ma volle continuare a giocare. Vuole raccontarlo?
“E’ vero, fu durante uno scontro di gioco, nella mia prima stagione a Palermo. Caddi a terra svenuto ma non appena mi ripresi continuai a giocare con il solito impegno che mettevo in ogni gara, anche perché allora non esistevano le sostituzioni e avrei lasciato i miei compagni in dieci”.
– Finita la carriera di giocatore lei intraprese il mestiere di assicuratore ma non abbandonò mai il mondo del calcio. Prese il patentino e diventò allenatore. Anche questa è stata per lei un’esperienza positiva?
“L’attività di assicuratore, che seguo ancora affiancato da Manfredi (il primo dei suoi tre figli), mi ha consentito di non lasciare Palermo e tutti gli affetti. Come allenatore iniziai nel settore giovanile del Palermo ma a un certo punto mi fu data l’opportunità della prima squadra. Era il 1975, il Palermo era ultimo in classifica e fui chiamato a sostituire De Grandi come “traghettatore”. E invece arrivarono ottimi risultati e dall’ultimo posto in classifica portai la squadra a sfiorare la serie A. L’anno dopo mi sono dimesso (ci furono contrasti con alcuni giocatori, ndr), preferendo svolgere l’attività di allenatore del settore giovanile”.
– E della sua esperienza nel 1995 nel “Palermo dei picciotti” cosa le è rimasto?
“Fui chiamato per affiancare Ignazio Arcoleo che non aveva ancora il patentino di allenatore. Quella squadra era formata in gran parte da ragazzi palermitani provenienti dalla Primavera, come Tanino Vasari, Ciccio Galeoto, e Giacomo Tedesco. La squadra fece bene ma la cosa più bella per me fu il consolidarsi dell’amicizia con Ignazio Arcoleo che ancora oggi dice che io per lui sono un fratello”.
– Cosa pensa dell’attuale situazione del Palermo?
“Non conosco nessun giocatore della rosa attuale. Di sicuro c’è un distacco fra calciatori e tifosi che ai miei tempi non esisteva. Inoltre io ho avuto il privilegio di lavorare per un grande presidente, Renzo Barbera, un padre a tutti gli effetti. Per quanto riguarda l’attuale situazione di classifica, come ex calciatore e tifoso mi sento mortificato. E’ davvero un peccato che una città grande e bella come Palermo debba fare una fine ingloriosa quando avrebbe potuto ottenere grandi risultati con i forti giocatori che negli ultimi anni sono stati ceduti. Nel calcio tutto può succedere ma di certo la situazione è molto critica”.
– La sua vita fuori dal calcio?
“Ho una bellissima famiglia. Mia moglie Giusi con la quale sono sposato da più di cinquanta anni, tre figli affettuosi, Manfredi, Flavio e Federica e sei nipoti stupendi. Vado a teatro perché amo la prosa, ascolto buona musica, trascorro molte giornate nella “mia” Mondello col suo mare meraviglioso e che mi ricorda quello fanciullesco tarantino. Ma mi occupo ancora di calcio”.
– Si riferisce alla scuola calcio che insieme a Biagini la tiene impegnato con piccoli aspiranti calciatori palermitani?
“Si, mi dà la possibilità di trasmettere alle nuove generazioni i valori e i segreti di questo sport. Inoltre è un vero piacere per me chiacchierare con i genitori di questi piccoli atleti che sono tutti affettuosi con me perché ricordano il mio impegno e la mia dedizione per la squadra del Palermo e per la città”.
Una vita per la famiglia, per il lavoro e per il calcio. Una vita intrisa d’amore e di passione, vissuta con umiltà e riservatezza. Quest’amore Tonino De Bellis lo ha provato, lo ha dato e lo ha ricevuto da questa città. Niente di più bello, per un rude terzino che può camminare a testa alta, orgoglioso di quello che ha fatto e della famiglia che ha costruito. Auguri Tonino, a nome di tutti gli sportivi palermitani.
QUESTA E’ UNA LEZIONE PER ZAMPARINI
Ricordo caramente Tonino De Bellis, uomo e calciatore di vecchio stampo, di quello che oggi raramente si trovano. L’intervista di Delia mi ha dato l’occasione di rivedere anche il mio passato di vecchio tifoso. Tonino l’ho incontrato spesso al TC2, dove tiene la sua scuola di calcio, e dove andavo ad accompagnare mio nipote che faceva scuola di tennis, e spesso chiaccheravamo con piacere, anche se lui non mi conosceva personalmente, ma come tifoso.
Bela intervista, complimenti.
Un’intervista condotta, come sempre, con stile e competenza. Il ritratto di un calciatore “all’antica”, ora un maestro che segue le sorti del Palermo con saggezza, investendo sui giovanissimi che faranno il calcio di domani.
Brava Delia! Un’intervista a mio parere perfetta, soprattutto per la fusione totalmente riuscita fra la componente personale e affettiva e quella professionale di quello che tu definisci giustamente un ‘monumento’ della storia rosanero. Nonostante la mia scarsa familiarità con il calcio, anch’io ricordo gli anni di Tonino De Bellis, al quale oggi faccio gli auguri per questo importante compleanno
Ottima intervista da cui emerge soprattutto il tratto umano di questo grande sportivo che i giovani dovrebbero prendere ad esempio per diventare i campioni del futuro. Bravissima!