Il coronavirus, i bambini e la sindrome da capanna: la “confessione” di Andrea
Lo ha detto alla fine Andrea. Gli è uscito dal cuore e dalla bocca, con l’espressione grave, ma contemporaneamente tenerissima di un bimbo di otto anni, tra preoccupazione e senso di liberazione: “Nonno, ho avuto paura per voi, ho avuto paura di non vedervi più“.
Voglio raccontarlo, lo struggente incontro con il mio nipotino dopo 61 lunghissimi, interminabili, pesantissimi giorni di “distanziamento sociale” imposto dall’alto da quelli che sanno tutto del virus maledetto ma che continuano a non farci capire nulla, di forzato e doloroso distacco da quello che per me, lo dico ben consapevole di non fare torto a nessuno, è l’affetto più importante della vita, quello che me l’ha cambiata in meglio da otto anni a questa parte. Voglio farlo perché credo sia stato, al di là degli aspetti personali e intimi, assolutamente emblematico di una parte degli effetti psicologici sui bambini forse non valutati nella maniera adeguata, per quello che sono e ancor di più per quello che saranno, dei drammatici tempi del Covid-19.
Lo confermo: dopo tanti provvidenziali e salvifici contatti virtuali con whatsapp video e Skype, è’ stato certamente quell’incontro pieno di emozioni, commozione, gioia da entrambe le parti che ci aspettavamo. Ma per me è stato molto di più: l’inizio di una riflessione ancora più ampia e profonda, dal punto di vista umano, sui tempi che stiamo vivendo. Come ho scritto a caldo su feisbuc, ho capito definitivamente dal vivo, con chiarezza e con una punta di turbamento, quanto è duro e destabilizzante questo periodo per i bambini, un’esperienza che senza alcun dubbio lascerà un segno profondo nell’anima di questi piccoli esseri umani, che hanno sensibilità più spiccate rispetto a molti adulti.
Sotto questo profilo, a mio avviso soltanto questo, il costante accostamento mediatico tra l’emergenza Coronavirus e la guerra, sembra appropriato: credo che i bambini del 2020, se non lo rimuoveranno del tutto, racconteranno fra qualche decennio ai loro figli e nipoti questo periodo come i nostri nonni reduci dalle Guerre mondiali hanno fatto con noi.
Dopo due mesi e un giorno – l’ultima volta è stata sabato 7 marzo scorso -, Andrea è ritornato dunque a casa dei nonni, quella che ama definire con gioia “la mia casa”, evidentemente frastornato, smarrito, spaurito. Con un sorriso sbiadito, ben lontano dalla risata fragorosa e coinvolgente che ha sempre accompagnato l’inizio delle sue visite settimanali del venerdì. Lo immaginavo, se devo essere sincero, ma non fino a questo punto. Si è fermato sul pianerottolo, come se fosse incerto sul da farsi; guardando verso la porta d’ingresso di casa nostra con espressione indecifrabile per un bambino sempre gioioso e spontaneo.
Gli ho chiesto dietro la insopportabile, ma necessaria mascherina: Che c’è, amore mio ?. Mi ha risposto da ometto, com’è in realtà: “Niente, nonno, niente“. Ma era chiaramente turbato e con qualcosa dentro la sua anima che non lo rendeva tranquillo.Ma il desiderio, enorme, di rivederci, di tornare a giocare e a ridere con me, con il suo “compagnetto” di giochi preferito, per fortuna ha prevalso. Senza che io lo sollecitassi si è fatto coraggio, da quel bambino speciale che è, ed ha varcato la soglia di casa dei nonni, lasciandoci a bocca aperta: “Risento un odore familiare“, ha esclamato.
Da quel momento è stato un progressivo, commovente riappropriarsi del suo territorio, stanza dopo stanza, oggetto dopo oggetto, abitudine dopo abitudine. Gli ho fatto trovare un computer riformattato e predisposto per lui e si è messo a giocare come un formidabile bambino digitale, lasciandoci stupefatti dei progressi fatti – è cresciuto, eccome – da quando non ci siamo più visti. A poco a poco è tornato prima il sorriso vero, poi la risata piena di adorabile felicità.
A tavola, approfittando della sua contentezza per il pranzo in balcone che lui ama moltissimo, il nonno giornalista curiosazzo lo ha intervistato. Poche domande, per non turbarlo ancora e risposte secche.Andrea, cos’è per te questo virus ? “Una cosa bruttissima, nonno. Troppo brutta. Uccide tante persone, tante ne fa stare male. Fa veramente spavento. Non me l’aspettavo”.Cos’è la cosa che ti fa più male ? “La mancanza, nonno”. Bella e semplice definizione, da bambino. Glielo richiedo a mio modo: il senso di vuoto, vuoi dire ?
Lo capisce bene: “Sì, sì nonno”. E di più cosa ti manca ?, insisto. Ecco, arriva il momento liberatorio, quello che il bambino forse dentro di sé aspettava. “Nonni, siete voi che mi siete mancati più di tutto, l’ho detto tante volte a mia madre. Mi sono spaventato tanto per voi … sentivo tutte quelle cose e mi spaventavo … ho avuto paura di non vedervi più”. Mi sento mancare il respiro, mi viene il groppo in gola, ma vado avanti per rasserenarlo: e i tuoi compagni non ti sono mancati ? “Sì, certo, mi manca di stare insieme a loro, ma ci vediamo al computer con la scuola e ci sentiamo per giocare alla Play Station”.E infine gli chiedo della scuola, dell’esperienza della didattica a distanza. Come ti trovi ? “Bene, mi piace nonno, è bello, sto studiando tanto, di mattina e di pomeriggio. Le maestre sono brave e ci stanno vicine”.
Fine, non insisto. Il momento più difficile, però, deve ancora venire. Ho, abbiamo la sensazione netta e molto triste che il bambino abbia una certa paura ad uscire da casa e andare all’aperto, anche se suo papà lo ha portato fuori in questo periodo più di una volta, nel rigoroso rispetto delle regole. “Andrea, andiamo giù in giardino, l’aria ti fa bene, ci divertiamo”. Non vuole, sembra irremovibile. Dice che preferisce restare con il tablet, ma è evidente che qualcosa dentro di lui lo trattiene. Qualcosa che tra angoscia e paura. Anche per i bambini, chiusi a casa per tanto tempo e con la vita stravolta, scatta quella che viene chiamata “sindrome della capanna” o “del prigioniero“, cioè la rassicurante voglia di casa che prevale sul desiderio di uscire. Riusciamo finalmente a convincerlo a scendere con un escamotage da vecchi marpioni.
Da quel momento cambia tutto, molto velocemente: il timore, quasi terrore svanisce subito, prevale la gioia e la voglia di libertà all’aperto di qualsiasi bimbo, torna la risata fragorosa, mi segue felicissimo in una passeggiata per strada, fuori del cancello. Mi viene in mente Neil Armstrong, il primo uomo che mise piede sulla Luna “Un piccolo passo per un bambino, un grande passo verso la normalità”. Non risale più a casa, restiamo fuori, all’aperto, con un bel sole e una magnifica aria per due ore, sempre a distanza di sicurezza, fino a quando il suo papà non viene a riprenderlo per riportarlo a casa.
Mi saluta con la vociotta di bimbo che cresce e con il suo meraviglioso sorriso: “Ciao nonno!”. E’ fatta, Andrea è tornato davvero.Ecco, ve l’ho raccontata tutta, passo per passo. E’ una testimonianza, ma anche un invito a riflettere su un problema che non va affatto sottovalutato, se non vogliamo che da questa maledetta storia venga fuori una generazione di bimbi gravemente traumatizzata.
Caro Gaetano, ho appena finito di leggere Scalfari e Molinari. Che noia. Del secondo ne ero quasi certo, del grande Eugenio mi dispiace perché nelle ultime due settimane aveva avuto uno scatto d’attualità e d’orgoglio. Il tuo racconto invece è palpitante, vivo, emozionante e conferma la tua sensibilità e capacità di tradurla in scrittura. Ma soprattutto pone al centro il bambino con domande ineludibili. Complimenti